Il significato del mio impegno
Di Nicola Todeschini · Ultima modifica circa 3 settimane fa · Modifica documento · Elimina
Vale ancora la pena credere nel cambiamento?
Riflessioni del giorno dopo la nascita di: Basta sprechi - movimento per la riduzione della spesa e dei privilegi. Di Nicola Todeschini
Quando mi sono messo in testa di “fare” qualche cosa, di smettere, in altri termini, di stare nella schiera di coloro che criticano -anche giustamente- quanto accade ma giustificano la loro disaffezione, dall'impegno attivo, con cinismo (tanto non cambia nulla), mi sono chiesto se siamo nelle condizioni di cambiare le cose. Mi sono chiesto pure come verrà interpretato il mio impegno in questa causa, quali reazioni sarò destinato a subire.
Ebbene, in questi anni ho spesso criticato il sistema, sollevato obiezioni pesanti su molti di coloro che sono impegnati in politica, rifiutato l'invito, più volte diretto alla mia persona, di “entrare in politica”. Ho sempre risposto che, se avessi accettato, avrei forse raccolto pure qualche consenso, ma presto mi sarei trovato contro i miei stessi “amici” di partito perchè la logica del gruppo, che mi pare oggi in voga, impedisce di decifrare quanto accade secondo regole di buon senso, ma scrimina ciò che è giusto da ciò che è sbagliato solo guardandolo attraverso la lente della posizione di partito. Un esponente di sinistra, o di destra, di fronte alla richiesta di commentare una proposta politica, si trova in imbarazzo se non conosce l'autore della proposta e la sua appartenenza politica perchè, nell'incertezza, teme di dare ragione ad un nemico; manca del tutto l'obiettività, ormai le prese di posizione giornaliere sono rappresentata dal portavoce di turno dal volto di gomma, capace di dire qualsiasi cosa venga a lui richiesta col piglio di chi afferma il vero; ma sono portaborse di professione, amplificatori catatonici del pensiero, spesso bieco, altrui. Oramai è raro assistere ad un'intervista che contenga domande non preventivamente concordate, durante la quale gli interlocutori dialoghino apertamente; assistiamo invece a teatrini, con figurine in posa davanti ad un quadro, il cui autore sconoscono per sicuro, pronte a partire quando viene selezionato il tasto “play” ed a fermarsi allo “stop”. Aria fritta, la solita minestra rimescolata, segno inequivocabile dello scarso rispetto che hanno per chi li ha votati.
Bene, torniamo al primo interrogativo: servirà a qualche cosa l'impegno? Ho sempre creduto che la libertà non sia anarchia, ma che piuttosto possa definirsi libero un uomo che volontariamente si sottoponga alle regole comuni pur criticandole, se del caso, e decidendo di combatterle con strumenti leciti, aspramente, se ritenuto, ma all'interno del sistema. I fanatici dell'anarchia assoluta, della libertà intesa come scioglimento da qualsiasi vincolo, regola, principio, sono illusi che non si rendono conto che, per primi, si impongono una forma di libertà e che, già grazie a tale imposizione cessano di essere liberi nel senso da loro indicato: anche imporsi di essere liberi è sintomo di fallimento di “quella” libertà teorizzata come assoluta. Credo molto di più nell'impegno, civile, nella battaglie di principio; credo che l'impegno pulito, altruista, di tanti, possa fare la differenza, possa almeno muovere le coscienze, alterare equilibri fondati sul malcostume consuetudinario.
Quando, nella mia professione, mi sono trovato innanzi a battaglie nelle quali credevo, anche di principio, che altri avevano battezzato come perse in partenza, o che comportavano scontri importanti, avversari difficili in quanto poco onesti, avezzi all'inganno, all'illecito, non mi sono mai guardato intorno, ho sempre puntato al conseguimento del fine che ritenevo giusto senza troppi calcoli, senza misurare troppo la difficoltà. Niente di eroico, semplicemente gli insegnamenti dei miei genitori, il profumo delle battaglie di mio padre, che da presidente dell'avis ha saputo sconfiggere, quando si sono presentati, i mostri dell'indifferenza e della discriminazione senza guardare in faccia a nessuno; il significato morale dell'impegno di mia madre, che ha sempre guardato con forza e sincerità al giusto, sviluppando in me la forza di difendere le idee nelle quali credo. Un tanto garantisce di avere sempre ragione? Certo che no, ma spiega che si può, in buona fede, combattere con fiducia per ciò che si ritiene giusto. Indica una strada, l'unica per me, insegna il rispetto per il prossimo, induce all'attenzione per il debole, orienta l'atteggiamento verso le persone, gli animali, le cose, il mestiere, instilla fiducia nella possibilità di cambiare, contribuisce a ritrovare forze che non si credevano nemmeno disponibili.
Quindi, per me sì, siamo nelle condizioni di cambiare qualche cosa, ma la strada è lunga, le coscienze debbono muoversi.
Scrivevo, nelle prime righe, che l'altra domanda che mi sono posto riguarda l'interpretazione che, di questo impegno, verrà data dagli altri. E' una domanda alla quale non mi sono dato una risposta, anzi ho considerato che l'interrogativo non fosse decisivo, che non potesse incidere sul desiderio di fare qualche cosa. Ho imparato, tuttavia, anche durante il mio impegno professionale, che se c'è un peccato che non viene perdonato è proprio “fare”. Ovunque, nel lavoro, nei gruppi di persone che condividono passioni, passatempi, addirittura tra conoscenti, chi “fa”, ha iniziativa, si da da fare, si espone, esterna le ragioni del suo impegno, viene guardato con sospetto, indagato alla ricerca del suo “vero” fine, sia pure, soltanto, quello di essersi messo in mostra. Ormai anche la cortesia, alla quale non siamo più abituati, la buona educazione, sono considerati sintomi di qualche cosa di negativo, suscitano interrogativi prima ancora che piacere. Di norma, è sin troppo facile ricordarlo, si attribuiscono agli altri secondi fini, mezzucci, trasversalità bieche, che ben si conoscono e praticano e, proprio per questo, ci si attende che anche il prossimo si comporti altrettanto male. Diceva Oscar Wilde che “avere una buona educazione è un grande svantaggio, ti eslcude da tante cose”.
Ma non è tutto qui, non è solo maliziosa diffidenza da provinciali, quali spesso siamo; l'indifferenza per l'importanza del “fare” ha conferme notevoli anche nel diritto. Il “fare” è protagonista della rivoluzione -non a caso- culturale del danno esistenziale: da rilievo, tale pregiudizio, proprio a ciò che non si può più fare, chiarisce che la persona non è solo caratterizzata da un fascio di aspettative utili alla conservazione della salute, ma vive pure per fare, per fare cose che non determinano reddito, ma che la realizzano, la rendono felice. Ebbene, quando Paolo Cendon, demiurgo dei diritti della persona, non a caso attento in particolare ai diritti dei deboli, ha teorizzato il danno esistenziale, sostenendo che anche la perdita del “fare” deve essere risarcita, contro di lui si è alzato un muro di sdegno da parte dei conservatori dei privilegi, e un entusiasmo vero in tutti coloro che hanno sensibilità per la dignità della persona pure di fronte al diritto. Ancor oggi, nonostante molte battaglie alle quali mi onoro di partecipare, il “fare” è oggetto di attenzioni pericolose, come ben affermato in un bellissimo saggio di Paolo Cendon di recente pubblicato su www.personaedanno.it
Così ho concluso che il mio “fare” potrà pure non piacere, suscitare dubbi, essere frainteso, combattuto, ma corrisponde al mio modo di concepire le cose della vita, è coerente con l'esperienza di difensore dei diritti dei più deboli, vicino alle associazioni dei consumatori, studioso dei diritti del malato, arricchito dalle esperienze di redattore della rivista Persona & Danno, di responsabile di alcune rubriche alla radio, spesso orientate a raccontare il diritto sì, ma anche a commentare il significato civico, a lamentarne l'assenza, a confrontare il pensiero del giurista con il buon senso comune, a far sentire alle persone la vicinanza, possibile, del diritto quale strumento per la difesa dei loro diritti, e non artifizio a sostegno della conservazione dell'impunità e dei privilegi.
credo che sarebbe utile inventare un simbolo facile e gratuito da procurarsi, un simbolo che si possa portare addosso facilmente, ben visibile, e che in maniera seria ed inequivocabile visualizzi che chi lo porta si è rotto i c. .... di questa classe politica ( tutta) egoista, senza un minimo di pudore, che vive di privilegi incapace di riscattarsi.
RispondiEliminaUn simbolo che evidenzi che siamo tremendamente incazzati e stufi di tutti e dico di tutti coloro ( baroni Universitari, attori e registi del c..., presentatori lacchè, avvocati venduti e disonesti, giocatori di calcio da milioni di euro all'anno, insomma un simbolo che dica è l'ora di cambiare... andate tutti a cacare.